Se è vero che molti degli scrittori italiani hanno smarrito il senso della verticalità (quella capacità di spingere le storie al di là del dato realistico, in una zona franca, che travalichi il puro racconto del quotidiano o della sua deformazione), è altrettanto vero che tale linea narrativa torna d’attualità con il libro di Alessandro Zaccuri: un romanzo limpido e inquieto, luminoso nel costrutto e nelle sequenze, ma ricco di numerose zone d’ombra che ci tocca attraversare tutto d’un fiato. Zaccuri chiama in causa una geografia di autori da Manzoni a Pomilio, passando ovviamente attraverso, Santucci e Parazzoli, assecondando una traiettoria seriamente e severamente impegnata nella ricerca religiosa come racconto di una interiorità, epifania del sacro che non è, si badi, spettacolarizzazione morbosa dei fatti relativi alla fede o alla religione. In tal modo realizza un’opera a più livelli di lettura, che non dà risposte, piuttosto pone domande, intriga la coscienza, esige responsabilità, fa appello alle risorse del cuore e della mente, chiama in causa Agostino, Lutero, Pascal, ma sempre con un senso di ironia che fornisce alla scrittura la necessaria leggerezza per essere sì un romanzo di idee, ma anche di accadimenti familiari e di sentimenti.