Silvio Spaventa Filippi è noto alle persone di cultura di una certa età per aver fondato e diretto per un quarto di secolo il “Corriere dei Piccoli”, in cui tradusse in atto un pensiero educativo che ha un suo valore nel panorama pedagogico italiano della prima metà del secolo scorso. Poco o non affatto conosciuta è la sua produzione letteraria, che invece meriterebbe di essere rivisitata e adeguatamente valutata nell’ ambito della civiltà letteraria del primo Novecento.
Profondo conoscitore delle letterature antiche e straniere, formatosi alla grande scuola degli umoristi inglesi dell’Ottocento, egli è stato anche uno scrittore, prosatore dalla scrittura tersa e limpida come un classico, autore squisito, anche se non prolifico, di romanzi molto apprezzati dalla critica del tempo; teorico dell’umorismo; critico letterario fine e penetrante; traduttore impareggiabile di tutte le opere di Dickens e di altri umoristi, come Kipling, Peter Rosegger e, tra gli altri, Jerome K. Jerome, ch’egli scoprì e fece conoscere per primo in Italia.
Dino Provenzal, che per lunga consuetudine di rapporti ne ebbe intima conoscenza, scriveva che a delineare la personalità di Spaventa Filippi più che il biografo, basterebbe il bibliografo il quale “indichi, con una serie di titoli, i giornali ai quali collaborò, i romanzi che scrisse, i libri che tradusse. L’esistenza di lui è tutta lì”.
Una vita operosa ma silenziosa, scarna di avvenimenti esterni, quella del nostro scrittore, tutta raccolta nel lavoro letterario e risolta nel culto della famiglia. La sua esistenza si svolgeva entro confini limitati: la casa, la redazione del Corriere dei Piccoli, le botteghe dei librai, qualche strada solatia, “per andarvi a pensare più solo”, com’egli soleva ripetere agli amici.
Nella letteratura Spaventa Filippi trovava rifugio alla inquietudine del vivere.