Più ci allontaniamo dal Novecento, più sembra acquistare originalità la figura di Leonardo Sinisgalli, scomparso il 31 gennaio di quarant’anni fa. Ciò si verifica non tanto a proposito della sua attività poetica, tenuta a battesimo da Ungaretti nel periodo tra le due guerre e rimasta quasi sempre dentro il perimetro di un ermetismo, sia pure declinato a modo suo, non secondo le forme di quello fiorentino. A emergere con prepotenza è piuttosto il lavoro di ingegnere, l’altra faccia di questo autore, nato in Lucania nel 1908 e vissuto prevalentemente tra Milano e Roma; un profilo che sta a completamento dell’essere stato poeta e non, come banalmente si poteva ipotizzare nei decenni passati, in posizione alternativa. Questa mia affermazione non significa che i versi abbiano perso di vigore rispetto all’epoca in cui apparvero, a cominciare dalla prima, importante raccolta, Vidi le Muse, che uscì, nel 1943, accompagnata da un mirabile saggio di Gianfranco Contini. Per avere conferma di quanto sia ancora vivo l’interesse per la produzione letteraria, basterebbe passare in rassegna i libri ristampati da Mondadori nell’ultimo biennio: Tutte le poesie, Furor mathematicus, i Racconti; un’operazione editoriale fortemente voluta dalla Fondazione che porta il suo nome e a potenziale prologo di successive iniziative, che potrebbero riguardare il corpus epistolare, in larga parte inedito. Discutendo intorno a Sinisgalli, però, non si può dimenticare che nel panorama del secolo scorso egli ha condiviso con Primo Levi (più che con Gadda) il primato di intellettuale politecnico e questa sua indiscussa centralità emerge non solo per aver vissuto in presa diretta fabbriche i fenomeni dell’industria, ma alla luce di un generale ripensamento circa il processo di modernizzazione del Paese, che è possibile effettuare oggi (non ieri) da una prospettiva non più sottomessa a lenti ideologiche. È come se, in altre parole, l’incedere del tempo abbia aiutato a liberarci dalle scorie del Novecento e a capire meglio cosa sia stato il controverso rapporto con la “civiltà delle macchine”. Cito un’espressione destinata a diventare il titolo dell’house organ finanziato dalla Finmeccanica, fondato da Sinisgalli, nel 1953, con l’aiuto del manager umanista Giuseppe Eugenio Luraghi, e destinato a dare una chiave di lettura completamente nuova al tema sulle “due culture”. All’altezza di quegli anni, mentre buona parte dell’establishment manifestava titubanze (per non dire ostilità) nei confronti della fabbrica, tanto da individuare in essa le ragioni per cui rifiutare il modello capitalista, Sinisgalli conduceva un discorso contromano, intuendo un’ideale analogia tra le regole fordiste della produzione, il pensare con l’intelligenza delle mani e i principi di una tradizione scientifico che da Cartesio, da Galilei, risaliva fino a Leonardo da Vinci. Non è un caso che «Civiltà delle Macchine», venuta alla luce mentre in Italia si celebrava il cinquecentenario leonardesco e a Milano si inaugurava il Museo della Scienza e della Tecnica, avesse sulla copertina del primo numero i disegni sul volo degli uccelli. Può darsi che quel tipo di iniziativa potesse apparire una semplicistica operazione di propaganda (un “suonare il piffero” agli industriali, avrebbe potuto scrivere Vittorini), ma non lo fu in ragione del fatto che non soltanto la fabbrica in sé, ma l’epoca della ricostruzione avesse bisogno di narrare le trasformazioni anziché osteggiarle obbedendo a un indottrinamento politico o, peggio ancora, a causa di un tanto vistoso quanto disarmante limite di comprensione. Bisognava avvicinare le macchine ai poeti: era questo il progetto che Sinisgalli intese condurre tra anni Trenta e anni Sessanta, quando collaborò con le maggiori aziende italiane, dalla Olivetti alla Pirelli, dalla Finmeccanica all’Alitalia, dall’Eni all’Alfa Romeo. E fu una battaglia che rispondeva a finalità ambiziose: innanzitutto colmare il gap che il versante umanistico denunciava nei confronti di quello tecnologico e poi voltare definitivamente pagina con la civiltà della terra, la cui retorica riempiva di nostalgie arcadiche pagine e pagine di libri e copriva con una patina di anacronistica antimodernità non dico i risultati di un Pasolini, ma perfino quelli dei più insospettabili, come Calvino, Volponi, Fortini, Ottieri. «Io entro in una fabbrica a capo scoperto come si entra in una basilica, e guardo i movimenti degli uomini e dei congegni come si guarda un rito»: questo affermava Sinisgalli nel 1949, in un articolo apparso sulla rivista «Pirelli», anch’essa fondata e diretta da lui nell’immediato dopoguerra, durante la sua seconda stagione milanese. Siamo agli antipodi rispetto alla visione apocalittica che avrebbe dominato l’epoca del benessere. Siamo soprattutto dentro il paradigma di una cultura che, nel sacralizzare la dimensione artigianale del lavoro operaio, tentava la strada di una conciliazione tra natura e macchine, pervenendo a una sorta di contromodernità o, per dir meglio, a una riscrittura del moderno, secondo una grammatica non avulsa da contesti sperimentati, in parallelo, alla Olivetti. Certo il progresso non è un feticcio: lo dichiara il titolo di un suo libro, Calcoli e fandonie (1970), che gioca sull’ambiguità delle certezze matematiche e proprio per questo ripubblico nella collana Novecento.0 di Hacca editore tra pochissimi giorni. Ma questo non intacca la convinzione che le macchine vadano comprese, non demonizzate, incarnando esse, così come Sinisgalli scriveva già nel lontano 1937, il «mistero laico del nostro tempo».

(Giuseppe Lupo, Il Sole 24 Ore del 31 gennaio 2021)