Si vuole che sotto il segno dell’Ariete nascano persone impulsive, incaute, tentate dall’azzardo. Ma Emilio Colombo, che era appunto un ariete, fu il contrario di tutto questo. Personaggio famoso e vivente smentita delle credenze zodiacali. In politica ebbe passo felpato, la bonaccia lo favoriva, non era un navigatore solitario, veleggiava in un ristretto equipaggio. E fuori la politica appariva accomodante, sereno, pronto a smussare gli angoli. Suo era il talento della mediazione. Prima i successi, poi la fama che raggiunse nella vita ricoprendo non si sa quanti alti seggi, lasciavano immaginare una personalità straordinaria. Lo era, sotto vari aspetti. Ma non dava quest’idea. Chi talvolta fu alla sua tavola o sedette nel suo salotto si accomiatò sottobraccio alla contraddizione.
Nessuna speciale brillantezza nella pacata conversazione, né lampi di genialità. Affiorava qualche prudente, educata, sorridente ironia pronta ad avvolgere l’interlocutore che avesse avanzato una diceria, una maldicenza. Colombo poneva qualche domanda, ma su questioni tutt’altro che di vasto respiro o spinose. Queste competevano al suo interiore cubiculum. E cedevano il passo a fatti minori, a discorsi magari divertenti intorno a episodi e persone nient’affatto rilevanti. Si poteva anche supporre che, come i campioni del biliardo, giocasse magistralmente di sponda per centrare il boccino. O forse riposava sui suoi pensieri gravi. Chi lo sa.
Insomma, non sembrava quello che i fatti – e che fatti – sancivano che fosse. E ciò poteva incuriosire. Poteva far sì che si chiedessero lumi a chi presumibilmente – per la vicinanza anagrafica, per la contiguità giovanile, per la lunga consuetudine – desse spiegazione al caso. Il caro, compianto, valoroso storico Tommaso Pedìo, simpatico anticlericale, che da ragazzo e da giovane era stato compagno e coinquilino di Colombo, una volta fu interpellato al riguardo. Rispose con un’alzata di spalle e buttò il pallone fuori campo. Disse soltanto “i preti!”. Non alludeva al primo mentore di Colombo, monsignor Augusto Cesare Bertazzoni, vescovo di Potenza dal 1930 al 1966, un sant’uomo per il quale l’anno scorso il Papa ha avviato il processo di beatificazione. Né alludeva a due spiccati sacerdoti, don Giuseppe D’Elia e il lucano don Giuseppe De Luca, fondatore agl’inizi degli anni Quaranta delle prestigiose Edizioni di Storia e letteratura.
L’ esclamativa allusione del professor Pedìo era a largo raggio e indicava quanto fossero estese le relazioni fiduciarie di Colombo nel clero minore come nella gerarchia, e in importanti propaggini di questa. Come il milanese Istituto Toniolo, che controlla l’Università Cattolica del Sacro Cuore e dunque il romano Policlinico Gemelli, alla cui presidenza Emilio Colombo sedette quando ormai declinava la sua attività politica. Del resto, quasi tutti i più alti esponenti democristiani della generazione di don Emilio ebbero culle politiche e percorsi analoghi. Lui, nell’Ateneo romano fu allievo del giurista Arturo Carlo Jemolo, chiarissimo e di stentato sorriso, caro a Paolo VI che a Natale gli mandava un biglietto augurale. Colombo era nel gruppo della FUCI romana, che includeva Andreotti e Moro e monsignor Montini era la loro guida in quei primi tratti del cammino. (Diverso fu l’itinerario di Fanfani, e la differente formazione emerse incorrotta nel futuro. Ben maggiore d’età, prima di avvicinare Dossetti e abbracciare il cattolicesimo sociale, a Firenze insegnò Corporativismo e Mistica Fascista, e fu collaboratore di “La difesa della razza”).
Si diceva della conversazione di Colombo, così piacevole e piana. Ma sulla tribuna, premiando il factum più che l’ argumentum, il suo parlare era oratoria. Ogni volta, la sera della premiazione del vincitore del Premio Letterario Basilicata, nel Teatro Francesco Stabile o nell’ Auditorium di Potenza, don Emilio con lenta misura accompagnava il gesto alla parola e teneva attento il pubblico. Sorvolava il merito dell’opera, il cui compiuto esame tocca ai critici, e si rivolgeva alla platea con sicura padronanza. Al centro del banco dei giurati, chino sul volume prescelto, intanto che si svolgevano i preamboli dedicati ai riconoscimenti minori, Colombo aveva maneggiato, sfogliato, letto per lo mezzo, e direi “annusato” il libro vincitore. Così collaudando un precetto di Goffredo Parise: ” L’importante è dare sempre , l’odore, il sapore delle cose”.
Fu lui, come è noto, a immaginare il Premio Letterario Basilicata e poi a volerlo nel 1972. Aveva raggiunto la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Per un anno e mezzo padrone di casa di Palazzo Chigi. Tutti i girasoli erano voltati dalla parte sua e perciò il Premio venne salutato dai media, specialmente dalla RAI, con incontenibili complimenti: che furono anche meritati, si deve riconoscere. Colombo era troppo “doroteo” per promuovere un’ iniziativa “contro”. Infatti, scelse che il Premio fosse un’iniziativa “per”. Ecco perché il “Basilicata” ebbe al vertice della Giuria uno dei maggiori esponenti della cultura italiana del Novecento, Carlo Bo; che era un orgoglioso cattolico, rispettoso delle altrui opinioni o militanze, e contraccambiato. Nonché, era uno dei pochi intellettuali che non “sbianchettarono” il loro passato. Nei cenni autobiografici scrisse di aver aderito al Gruppo Universitario Fascista di Firenze e di aver poi vinto, a trentatré anni, i Littoriali della Cultura. Come Taviani, Moro, Ingrao, Guttuso, e così via. La macchina organizzativa del Premio, il centro ideativo, fu il Circolo Culturale Spaventa Filippi. E al timone della nave Colombo suggerì che fosse chiamato il professor Vincenzo Verrastro, coetaneo e buon amico fin da quando entrambi furono giovani dirigenti dell’Azione Cattolica lucana.
Alzando la bandiera del “per” e non quella del “contro, il Premio Basilicata, come lo volle il presidente onorario Colombo, segnalò libri e autori centrando il bersaglio quasi sempre. E tante volte, cogliendo le migliori novità prima degli altri. Certo, il Premio fu ed è attento alle letture d’ispirazione religiosa, o più largamente spirituale. Ma non discriminò, considerò e considera il valore dell’opera, dell’autore. Così, meritati riconoscimenti andarono a libri, a scrittori fioriti nel giardino della sinistra , come a qualcuno venuto dalla destra. Criteri fondativi che furono attivi negli anni e tali restano altresì nella formazione delle Giurie, grazie al pluralismo culturale seguito dal presidente Bonsera.
Ma tornando alla figura di Emilio Colombo, nell’anno che segna il centenario della sua nascita è indispensabile ripetere cose note ma ingiustamente trascurate, o perlopiù velate, in diverse circostanze durante i sette anni che ci separano dalla sua scomparsa, e maggiormente oggigiorno. La prima è che, premesso che nessuno è perfetto, Colombo fu di gran lunga il più illustre uomo politico e di Governo espresso dalla Basilicata nella seconda metà del Novecento, dividendo con Nitti questo primato nel secolo tutto. La seconda è che la mole di consenso elettorale raccolto da Colombo dal 1946 fino alle ultime elezioni in cui fu candidato è, sul terreno storico, senza paragoni. La terza è che la gran parte delle opere pubbliche, o di pubblico vantaggio, anzitutto quelle stradali, realizzate in Basilicata nella seconda metà del secolo scorso è riconducibile a Colombo. Non si può non citare il suo decisivo apporto alla riforma agraria, né ignorare il potenziamento delle estrazioni petrolifere in Val d’Agri, avviate già negli anni Trenta.(E purtroppo, in tempi più vicini, cadute in colpa di rischio per la salute pubblica). E ancora: fu Colombo a patrocinare l’insediamento Fiat a Melfi. Fu lui nel 1950 a condurre De Gasperi a Matera; e alla sua penna si deve la legge speciale per lo sfollamento dei Sassi, preludio della rispettosa metamorfosi etnica materana che si offre oggi agli occhi del mondo.
Un lungo consenso elettorale sicuramente eccezionale, quello di cui si valse. Un largo sostegno popolare, che non può essere scalfito, neppure in parte, dalla chiosa che fosse favorito dal do ut des. Pena, in questo caso, la messa in discussione della regola maggioritaria, che ignora la qualità del voto ed è il fondamento, sebbene empirico, dei sistemi democratici. Siccome ogni medaglia ha il suo rovescio, il favore elettorale – che riguardò ogni ceto – generò vaste aree di conformismo; un conformismo fondato sulle immediate convenienze, sebbene necessarie, talvolta; da cui derivò, tra l’altro, un’ insufficiente crescita culturale, cagione primaria dell’emigrazione intellettuale. Un esempio? La benemerita istituzione, nel 1982, di una Università di Basilicata, non ebbe l’atteso seguito: uno sviluppo dell’ateneo. S’ignora quanti studenti, attualmente, siano iscritti all’ Università di Basilicata, ma un dato colpevolmente polveroso e sospetto indica 7000. Vale a dire, sarebbero cinque volte meno di quella salernitana. O grossomodo quanti quella di Teramo; o quanti quella di Camerino, alla quale però non solo il Censis riconosce la buona qualità dell’insegnamento. Ma è doveroso notare che, se l’applaudita “signoria” di Colombo fu ampia, fu esteso anche il potere detenuto dalla classe dirigente della sinistra. E purtroppo, la “non appartenenza” ne fece le spese.
Osservando la figura di Colombo, riflettendo sul suo corsus honorum e tenendo conto delle tracce documentali che restano di lui, si può immaginare che fosse abitato da un severo realismo o da un’ammirevole umiltà; oppure che la sua vocazione mediatrice abbia vinto su tutto, sicché non è dato rintracciare un pensiero politico di Emilio Colombo. Si vuol dire, un suo originale pensiero politico configurato e definito, vincente o sconfitto ma peculiare. Nella scena italiana come in quella europea, egli condivise forti e giuste politiche, questo sì. A dirla tutta, egli è storicamente rappresentato da un medagliere: la lunga sequenza degli alti incarichi ricoperti, salvo un intervallo, tra il 1946 e il 2013. Ma si può onestamente dire così: che non lascia pagine. Fu un uomo di letture, anche impervie, specialmente nei suoi anni verdi, che non fu uomo di scrittura. Non appartenne alla cultura del memoir, che ha fatto grande la storiografia francese. Incontrò Papi e Sovrani, visse nelle segrete stanze della politica, fu in confidenza con personaggi di rilievo storico come Gromiko, Arafat, il Negus, Nixon, Kissinger (che lo definì “Il raffinato e cortese andy lucano”). Incontrò Papi e Sovrani, principi e alti personaggi d’ogni campo. Non poté non conoscere i misteri della Repubblica. Come personalità di Governo ebbe conoscenza diretta, se non mano, nello smantellamento – anzi della svendita – della pubblica imprenditoria statale a vantaggio della privata (raccontata dal prof.Guarino in un recente libro di Angelo Polimeno Bottai): ma di tutto, e di molto altro ancora, nulla scrisse. Non condivise l’ambizione di politici altrettanto notevoli: quella d’ “infuturarsi”.
Non solo manca una seppur contenuta autobiografia di Emilio Colombo; manca anche una biografia di lui, non potendo esser così definiti i pur interessanti Per l’Italia e per l’Europa di Arrigo Levi (Il Mulino, Bologna, 2013) e Emilio Colombo, l’ultimo dei Costituenti, a cura di Donato Verrastro ed Elena Vugilante, 2017.
Su Colombo, una bibliografia quasi non c’è. E ciò purtroppo corrisponde alla esiguità, alla poca rilevanza storica, alla lacunosità delle “carte Colombo”, recentemente depositate all’Istituto Sturzo anche a lodevole cura di Giampaolo D’Andrea. (E altre “carte”, tutt’altro che sorprendenti, sono presso la Biblioteca del Senato). Per concludere: Colombo fu un uomo politico che non volle svelare o svelarsi. Fu voce eminente in un soggetto politico collettivo. Il contrario dell’altro leader politico lucano del Novecento, Nitti; che del suo pensiero di monarchico liberal socialista, e della sua azione, riempì libri, riviste, giornali: motivando così la sua presenza nella storia maggiore della politica italiana.
(Gino Agnese, da Leukanikà n. 3 Anno XIX)